domenica 26 giugno 2011

LA DIPENDENZA AFFETTIVA SPIEGATA DA UNO PSICOANALISTA JUNGHIANO


"Alcune domande fondamentali che ho imparato a rivolgere a coloro che si rivolgono a me per curare una supposta ferita d’amore, sono quelle relative alla descrizione del proprio compagno e delle esperienze vissute insieme. Quasi sempre c’è incompatibilità d’anima, mancanza di rispetto, progettualità diverse se non addirittura opposte, bisogni e desideri che non possono essere condivisi. E scarsi, se non assenti, sono stati i momenti di comunione profonda e di soddisfazione reciproca.

Perché allora continuare?
Perché tormentarsi nella speranza che le cose possano cambiare quando il supposto cambiamento è stato solo desiderato, sognato, immaginato ma mai sperimentato come possibile?
Perché non poter chiudere e allontanarsi, magari tra mille turbamenti, ma con la consapevolezza di una fine che era inevitabile per il rispetto di entrambi?
Perché restare sul posto, immobili… spesso indifferenti agli insulti e agli oltraggi… amplificando il proprio dolore a dismisura in una sorta di delirio sacrificale il cui orrore è pari solo alla sua inutilità?
E – soprattutto – perché questo stato di cose sembra non avere mai fine? Non essere limitato entro un ragionevole lasso di tempo entro il quale valutare le effettive opportunità di cambiamento…

Una osservazione superficiale potrebbe far ritenere il fenomeno dovuto alla minore capacità degli uomini e delle donne moderni di sopportare qualunque tipo di frustrazione, e di stabilire perciò dei legami di dipendenza non essendo semplicemente in grado di accettare il rifiuto di sé.
Ma non è così. Anzi… si potrebbe affermare addirittura il contrario: e cioè che la dipendenza si stabilisce appunto perché c’è il rifiuto. Se non ci fosse, quasi sempre il supposto amore finirebbe in un lasso di tempo incredibilmente breve.
Per quanto paradossale possa sembrare, la dipendenza si alimenta del rifiuto, della negazione di sé, del dolore implicito nelle difficoltà e cresce in proporzione inversa alla loro irrisolvibilità.
Quello che seduce è la lotta.

Quello che incatena – per usare le parole della psichiatra milanese Marta Selvini Palazzoli - è l’Ibris, cioè a dire la ingiustificata, assurda, sconsiderata presunzione di farcela. La presunzione di riuscire prima o poi nella vita a farsi amare da chi proprio non vuole saperne. O, secondo una serie di specifiche variabili, di riuscire a curare chi non può o non vuole essere curato, di salvare chi non può o non vuole essere salvato.
Ma ancora una volta, contrariamente a quello che può ritenere il buon senso comune, questa compulsione ad oltranza che spinge gli affettivo-dipendenti a permanere nella proprie inutili battaglie, non è determinata da una sorta di masochismo psichico. Non è il piacere per le proprie sofferenze che motiva tutte queste persone, bensì proprio l’opposto: la speranza inconsapevole di saturare una vecchia ferita. Di guarire da un male antico.

Perché il rifiuto, l’abbandono, la svalutazione di sé, l’umiliazione, hanno già fatto parte della loro vita emotiva; in un modo o nell’altro sono state queste le esperienze cruciali che hanno caratterizzato il delicato periodo formativo della loro personalità. Che ne è stata segnata!
In un’epoca in cui l’autonomia emotiva e la piena coscienza non potevano ancora essersi formate ci sono state laceranti esperienze di rifiuto e di abbandono da parte di uno o di entrambi i genitori, come conseguenza delle quali i bambini sono cresciuti in una sorta di anestesia che nasconde però sia l’ambivalenza dolore-rabbia per il mancato riconoscimento d’amore, sia l’atroce dubbio di non valere poi tanto e di dover fare di tutto per essere migliori.
La crescita copre la ferita… ma la lascia insanata.
Quando poi, nella vita adulta, si presenta una situazione simbolicamente simile a quella precedentemente vissuta è come se fosse colta al volo l’occasione di ritualizzarla per tentare di sanare il passato attraverso il presente. L’intento dell’inconscio non è sciocco né tanto meno auto-distruttivo. Piuttosto è ingenuo nel suo presumere di poter dimostrare una volta per tutte la propria disponibilità affettiva e il proprio valore, di conquistare (curare o sanare) l’essere tanto amato ma mai conquistato, e di venir così risarcito di tutto l’amore mancato.

Quasi mai l’Altro è visto per quello che è (spesso un egoista chiuso su se stesso, o un nevrotico senza speranza o un approfittatore senza scrupoli); piuttosto è immaginato come sarebbe qualora si lasciasse finalmente amare e con amore ricambiasse tanta dedizione. È di questa immagine, evocata come per incantamento nello specchio magico dell’inconscio, che il dipendente si innamora; senza accorgersi minimamente che dietro tale mascheramento occhieggia il volto del genitore che l’ha tradito.

L’ulteriore e ultimo paradosso consiste nel fatto che il rituale simbolico è percepito tanto più significativo – e dunque tanto più coercitivo - quanto più l’Altro si presenta affettivamente poco disponibile e non del tutto conquistabile, così come mai raggiunto e mai conquistato è stato l’adulto abbandonico. Non a caso la maggioranza degli affettivo-dipendenti confessa spontaneamente di non aver provato quasi mai attrazione verso Altri che, pur avendo tutti i requisiti per essere desiderabili, hanno commesso l’errore di testimoniare un gratuito affetto nei loro confronti. Come se la gratuità, appunto, avesse il potere di soffocare il loro desiderio, che solo nella morbosità della difficoltà e del rifiuto viene invece percepito e riconosciuto. In sostanza, più che di una immaturità cognitiva ed emozionale del dipendente, si tratta di una distorsione patologica della sua vita affettiva, ricalcata sull’impronta distorta impressa dal modello di relazionale primario.

Fermo restando che in qualunque relazione possono esserci brevi dolorosi momenti di mancata comprensione e incompatibilità, l’essenza dell’amore dovrebbe consistere nel piacere e nella gioia di condividere con un altro essere umano il mistero della propria vita. La dipendenza affettiva, al contrario, è caratterizzata da una tensione di incomprensioni e di ostilità, magari inconsce ma costanti, e dal ristagno dell’anima in condizioni quanto più dolorose e difficoltose… pena la fine dell’incantamento e la ricerca di una nuova relazione ancora più penosa e priva di speranza, in una coazione a ripetere pressoché infinita".



                                                                                                         Dott. Piero Priorini

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